Pulsioni di vita e di morte. Un documentario che inquadra la spettrale situazione di una regione agricola dell’attuale Vietnam, al confine con il Laos, dove gli abitanti si barcamenano pericolosamente tra la raccolta del riso, la noia e l’eroina.
L’Aids è sempre dietro l’angolo, pericolo sottovalutato e atteso, incubo per familiari e parenti dei sieropositivi. E la macchina da presa dei giovani registi, il francese Swann Dubus e il vietnamita Thao Tran, è fedele testimone della vita e dei pensieri di Thi e Chung, due destini accomunati dalla stessa attesa di morte. Entrambi tossicodipendenti e sieropositivi, vivono per non morire. Ma mentre la disperazione di Thi è proiettata verso un futuro che vorrebbe costruire “smettendo domani” di drogarsi, Chun è fermamente proiettato verso la fine. Si rivolge al padre defunto come a un compagno di vita e confessore; vive per sua stessa ammissione come uno zombie, un non morto, una vita non vita.
Il film procede per accumulazione: di pensieri, situazioni, drammi familiari, piaga dello spaccio e piccoli gesti. Ed è qui che si fa autenticamente commovente ed eticamente inattaccabile: la vera addiction che racconta è quella della solitudine, della droga associata all'abisso della tristezza, persino le canzoni che si scrivono e cantano nella zona parlano ormai di eroina e di come affrontarla. Piani sequenza che inseguono ed avvolgono e una voice over, i pensieri dei due protagonisti e dei loro familiari, che trasforma la testimonianza in cinema: la solitudine che Thi e Chung manifestano crea molta più disperazione dell’Aids e le inquadrature che li scoprono a farsi nei campi sono di una disperazione lacerante e controllata.
"Con me o senza di me il mondo sarà lo stesso": è il germe della depressione che origina i fenomeni associati alla droga. E tentare di analizzarli in un Paese in via di sviluppo che “assaggia” da poco la ricchezza è il vero grande merito del bel documentario di Dubus e Tran.
Pietro Masciullo
Pietro Masciullo
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