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martedì 27 dicembre 2011

Insidious - Regia: James Wan



Interpreti: Leigh Whannell, Barbara Hershey, Lin Shaye, Patrick Wilson, Rose Byrne, Jeannette Sousa, J. LaRose, Angus Sampson, Ty Simpkins, Andrew Astor, Derick Alexander, Johnny Yong Bosch, Josh Feldman, Philip Friedman, Kimberly Ables Jindra, Caslin Katsaros, Derrick Oliver, Ruben Pla, Chelsea Tavares, Heather Tocquigny, Corbett Tuck.
Durata: h 1.38 Nazionalità: USA 2011 Genere: horror


James Wan, conosciuto prettamente per aver girato l'opinabile "Saw - L'enigmista" (2004) - e prodotto la relavita prolissa e presuntuosa saga -, a tre anni dal suo ultimo lavoro registico, "Death Silence" (2007), torna a dirigere sedendosi dietro la sua bieca cinepresa. "Insidious" ricalca la classica trama della possessione demoniaca, elemento banalotto ed abusato, ma recentemente poco trattato dall'ambiente cinematografico, alla quale fa però capo l'elemento innovativo del viaggio astrale, esperienza extracorporea che conduce in una dimensione profana per chiunque sia vivo.
Il prodotto appare promettente, gode di una regia digeribile e di alcune scene imprevedibili che fanno saltar giu dalla sedia; un vero peccato, però, che il contenuto prettamente edibile si consumi praticamente nel solo primo tempo. Le buone premesse verranno del tutto smantellate da una lunga ed imbarazzante sequenza finale, degna della peggior fiera carnascialesca paesana...

Avete mai provato a rinchiudere degli spiriti incazzati dentro uno sgabuzzino e bloccarne la porta con una seggiola? Un'insidia davvero poco "insidiosa" per i miei gusti!

 Voto  4½

Vik Korova


mercoledì 7 dicembre 2011

Trong Hay Ngoai Tay Em (With Or Without Me) di Swann Dubus e Phuong Thao Tran





Pulsioni di vita e di morte. Un documentario che inquadra la spettrale situazione di una regione agricola dell’attuale Vietnam,  al confine con il Laos, dove gli abitanti si barcamenano pericolosamente tra la raccolta del riso, la noia e l’eroina. 

L’Aids è sempre dietro l’angolo, pericolo sottovalutato e atteso, incubo per familiari e parenti dei sieropositivi. E la macchina da presa dei giovani  registi, il francese Swann Dubus e il vietnamita Thao Tran, è fedele testimone della vita e dei pensieri di Thi e Chung, due destini accomunati dalla stessa attesa di morte. Entrambi tossicodipendenti e sieropositivi, vivono per non morire. Ma mentre la disperazione di Thi è proiettata verso un futuro che vorrebbe costruire “smettendo domani” di drogarsi, Chun è fermamente proiettato verso la fine. Si rivolge al padre defunto come a un compagno di vita e confessore; vive per sua stessa ammissione come uno zombie, un non morto, una vita non vita. 

Il film procede per accumulazione: di pensieri, situazioni, drammi familiari, piaga dello spaccio e piccoli gesti. Ed è qui che si fa autenticamente commovente ed eticamente inattaccabile: la vera addiction che racconta è quella della solitudine, della droga associata all'abisso della tristezza, persino le canzoni che si scrivono e cantano nella zona parlano ormai di eroina e di come affrontarla. Piani sequenza che inseguono ed avvolgono e una voice over,  i pensieri dei due protagonisti e dei loro familiari, che trasforma la testimonianza in cinema: la solitudine che Thi e Chung manifestano crea molta più disperazione dell’Aids e le inquadrature che li scoprono a farsi nei campi sono di una disperazione lacerante e controllata.  

"Con me o senza di me il mondo sarà lo stesso": è il germe della depressione che origina i fenomeni associati alla droga. E tentare di analizzarli in un Paese in via di sviluppo che “assaggia” da poco la ricchezza è il vero grande merito del bel documentario di Dubus e Tran. 

Pietro Masciullo

venerdì 28 ottobre 2011

This Must Be The Place- Regia: Paolo Sorrentino



Interpreti: Sean Penn, Frances McDormand, Tom Archdeacon, Shea Whigham,
Harry Dean Stanton, Joyce Van Patten, Kerry Condon, Judd Hirsch, Seth Adkins,
David Byrne, Eve Hewson, Simon Delaney, Gordon Michaels, Robert Herrick,
Tamara Frapasella, Sarab Kamoo.
Durata: h 1.58 Nazionalità:  Italia, Francia, Irlanda 2011 Genere: drammatico


"...Le storie vengono dopo. Di solito le storie non mi piacciono.
Non mi piacciono le trame. Se potessi, le abolirei. Le storie bene
o male sono sempre le stesse, sia che si tratti di Orson Welles,
che dell’ultimo dei registi di soap opera. Solo raramente rimango
affascinato da una storia. L’unica cosa che mi affascina è il
tentativo di capire gli uomini, le loro sfaccettature,
i loro lati più oscuri e misteriosi..."- P.Sorrentino-

 

Parole sante quelle di Sorrentino, regista ormai affermatosi come
tra i più rappresentativi della scena italiana e non, che gia ne
"Il Divo", del 2008, s'erano concretizzate. Oggi più che mai,
quasi fosse un Goldoni del ventunesimo secolo, attua la propria
"riforma del cinema", spodestando dal podio la florida e remunerativa
figura del film "di intreccio" per rimpiazzarla con quella del film
"di carattere", scandagliando a fondo la componente umana, unica vera
protagonista della pellicola.
 


In "This Must Be The Place" "l'uomo" Sorrentiniano è elevato a potenza
cubica; il canovaccio funge da intelligente pretesto, da scintilla motrice
per un corpo ormai inerte. Cheyenne (Sean Penn) è una rock star
profondamente annoiata che, in seguito ad una tragedia della quale
si crede l'artefice, s'è rinchiusa a forza nel suo guscio, un universo
parallelo fatto di risolini omosessuali, attenti sguardi, glaciali e
secche risposte sagaci ed improvvisi sfoghi isterici. Elementi, questi,
che costituiscono ormai la quotidianeità di un guru appassito, un
Robert Smith in pensione che, come una vecchia zia, si trascina nei suoi
abiti di scena per fare la spesa, portandosi dietro l'immancabile trolley,
l'equivalente della coperta per Linus, come fosse un cane al guinzaglio.

 

Amante della vita, pur nascondendosi all'ombra della stessa, comincerà
ad apprezzarla e ad affrontarla veramente soltanto alla morte del padre
che scaturirà un vero e proprio tumulto nella sua abitudinarietà.
Decide, dunque, di recarsi negli Stati Uniti per cercare il carnefice
nazista che, in passato, perseguitò suo padre in un campo di concentramento.
Si da il via, così, ad un processo evolutivo rimasto interrotto da troppo
tempo, un viaggio "on the road" che lo condurrà al suo personalissimo bivio
esistenziale, coronato da una delle sequenze cinematografiche più belle degli
ultimi anni.

 

Con "This Must Be The Place", Sorrentino approda negli States e lo fa
senza contaminarsi, senza perdere il suo caratteristico smalto,
esorcizzando qualsiasi ampollosità sentimentalista di maniera e mantenendo
 un'impronta autoriale degna di nota e rispetto. Dirige un prodotto eccelso,
cosparso di ombre legate alle loro vite, disgrazie, avventure compiute e non,
elementi esistenti che si reggono in piedi indipendentemente dal protagonista;
di esse non c'è tenuto sapere tutto, fungono da meri contorni. Scelta ostica,
di stampo quasi Felliniano, ma decisamente approvata.
All'apparentemente scura figura di Cheyenne si contrappone il candore di un
David Byrne nella parte di se stesso- compositore inoltre della splendida
colonna sonora-, che incarna l'antitesi cromatica ed espressiva del leader
degli ormai estinti "Fellows".



Un road movie solare, equilibratissimo, sprizzante di vita e mai sottotono,
adagiato su una sceneggiatura magnificamente scritta e funzionale,
affogato in una fotografia preziosa ed inestimabile e dominato da un
bambinesco Sean Penn in totale stato di grazia!


Voto: 8½

Vik








 

















 


martedì 18 ottobre 2011

Arirang- Regia: Kim Ki-Duk

Interpreti: Kim Ki-Duk; Durata: h 1.45; Nazionalità: Corea del Sud 2011;
Genere: Documentario


Non è facile esprimere un giudizio riguardo l'ultima fatica,
è il caso di dirlo, del Coreano Kim Ki-duk.
Travestito da docufilm, "Arirang", si presenta come vero e
proprio foglietto illustrativo, appendice esplicativa di un
passato inquieto e turbolento. "Istruzioni per l'uso", insomma,
dove "Cinema" sta per cura da qualsiasi male.
 

Durante le riprese del precedente, e poco ispirato, "Dream",
2008, un grave incidente mise a repentaglio la vita di una
attrice producendo duri effetti collaterali sulla psiche
del regista stesso, tanto da costringerlo ad allontanarsi
dal suo mondo di cellulosa, abbracciando una vita di
solitudine e penitenza.
Adesso è solo con se stesso, in se stesso.
Kim Ki-duk si concede alla telecamera digitale, unica sua
amica insieme alle cianfrusaglie presenti nella baracca,
nella quale vive ormai da anni, in maniera del tutto naturale.

Il Regista è nudo davanti al Regista stesso, divenendo allo
contempo mente e corpo della pellicola.
Si confida, piange, ride di se, dividendosi in una triplice
identità (Es, Io e Superio), trasportata dal tipico canto Coreano,
l'Arirang appunto, filo conduttore della pellicola. La voce
è straziata, logorata, addolorata, pacata. Un lungo percorso
d'espiazione per chiarire se stesso al se, come ad uno specchio.

La strada condurrà all'inevitabile disintegrazione del passato.
Il totale abbattimento delle fondamenta di una costruzione
ormai in rovina. Lo sfacelo di un corpo. Tabula rasa sul
vecchio, terreno fertile per il futuro. La rinascita.

Il Regista mette in luce un'attenta e chiarissima chiave
di lettura del proprio Cinema. Il confronto con se stesso
evidenzia quanto i 14 protagonisti dei suoi lungometraggi
gli appartengano: la tripartizione del proprio essere- 
Vasumitra, Samaria e Sonata, i tre capitoli de "La Samaritana"-,
la meticolosità nel riparare apparecchiature- "Ferro3,
La Casa Vuota"-, la volontà di poter essere allo stesso
tempo buono o cattivo, proprio come un animale selvaggio
- "Crocodile", "Wild Animals", "Bad Guy", "Address Unknown"-
riscoprendo quanto possa apparir semplice la prima e complessa
la seconda ("Real Fiction") -, la continua ricerca di un luogo
di benessere, redenzione o pace interiore- "Primavera, Estate,
Autunno, Inverno... e ancora Primavera", "Birdcage-Inn",
"The Coast Guard", "L'Arco", "Time", "Soffio"- spesso,
infatti, si chiede se continuerà a vivere in quella catapecchia,
in quella precarietà. L'incondizionata voglia di ricerca si
evince proprio nel momento in cui Kim Ki-duk, il Regista,
piange guardando il proprio doppio cinematografico superare
la fatica per ritrovare la tranquillità spirituale.
E' evidente come egli stesso, allontanatosi dalla dimensione
cinematografica, trovi l'unica via di fuga nel Cinema stesso.
E', dunque, vitale morire appesi all'amo del proprio Cinema- 
"Seom - L'isola".
Una vita per esso, "in assenza di questo, filmo me stesso".



Voto: 6

Vik

lunedì 17 ottobre 2011

A Dangerous Method- Regia: David Cronenberg

Interpreti: Michael Fassbender, Keira Knightley, Viggo Mortensen,
Vincent Cassel, Sara Gadon, Katharina Palm, André Dietz, Andrea
Magro, Bjorn Geske, Christian Serritiello.
Durata: h 1.33 Nazionalità: Gran Bretagna, Canada, Germania 2011
Genere: drammatico


Cronenberg ci ha abituati ad un Cinema nervosamente psicologico,
cerebrale, convulso, decisamente viscerale e strettamente
legato ad una certa "ossessione per la carne", e lo ha sempre
fatto in maniera magistrale, senza dare adito ad avarizia alcuna;
questo suo ultimo lavoro, invece, spiazza proprio per la sua
inaspettata linearità. "A Dangerous Method" è un film storico e
prettamente teorico, tanto da esternare una vena di estrema algidità
clinica, che ripercorre un tema molto caro al Regista,
visti i suoi precedenti, la psicoanalisi.
 

Seguiremo, quindi, la messa in atto del metodo Freudiano, da parte
dello svizzero Carl Gustav Jung, e le vicissitudini della futura
psicoanalista russa, Sabina Spielrein (Keira Knightley), entrata
inevitabilmente in contatto con i due fronti di pensiero, contrari
ed affini, che, nei primi del '900, apriranno un'immensa porta al
mondo della Scienza.
 

Gli endoscopici ed eccelsi dialoghi, sulla quale è imperniata la
pellicola, e la staticità delle riprese, allontanano il prodotto
da un pubblico eterogeneo, circoscrivendolo ad uno spettatore più
attento ed interessato al tema.
 

Un notevole dubbio scaturisce dalle interpretazioni, in particolare,
nella duplicità della Spielrein. Certamente egregia è l'esecuzione
della Knightley prima che il turbolento Jung (Michael Fassbender)
applichi su di lei il metodo Freudiano, dimostrando d'essere
un'attrice ben più dotata di quanto c'abbia mostrato la Disney
con i suoi stanchi galeoni Caraibici; appare, invece, sottotono
e monocorde una volta emersa a nuova vita. Poco convincenti
Fassbender e Mortensen- il quale sfoggia un Freud quantomai anonimo-.
In definitiva, il poco sentito "A Dangerous Method", intaccato
ulteriormente da un fare ingiustamente frettoloso, convince a tratti e,
pur mostrandosi particolarmente attento agli avvenimenti storici,
si piazza come uno dei punti più anonimi della cinematografia
"Cronenberghiana".
 

Poco Cronenberg troppo Faenza ("Prendimi l'Anima").

Voto: 5½

Vik

venerdì 7 ottobre 2011

Carnage- Regia: Roman Polansky

Interpreti: Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz, John C. Reilly
Durata: h 1.19 Nazionalità: Francia, Germania, Polonia, Spagna, 2011
Genere: drammatico


Polanski non sbaglia un colpo e, dopo il magnifico e plumbeo
"L'uomo nell'Ombra" (2010), torna sul grande schermo con una
trasposizione cinematografica dell'opera teatrale "Il Dio del Massacro",
di Yasmina Reza.
Un prodotto costruito su riprese taglienti, secche, veloci ed
imprevedibili, incastonate all'interno di un comunissimo salotto
con vista metropolitana-imbarazzante come il Regista, con una telecamera
ed un'unica stanza, sia riuscito, in maniera impeccabile, a rendere
il tutto così fresco e appetibile, distante da qualsivoglia noia sintomatica -.
 La dinamicità si riflette negli sguardi e negli intelligenti dialoghi.
Un film ricco di viscerale gestualità, componente teatrale intatta che
si rivela un gradito valore aggiunto. Tutto è al suo posto, ordinato,
come su di un palcoscenico.

"- Zackary Cowen, di 11 anni, armato di un bastone.

- Armato?

- Michael, come si potrebbe dire? Meglio impugnava o che aveva un bastone?

- Aveva, sì."

79 minuti d'essenzialità durante i quali due famiglie borghesi si
confronteranno, ricercando una soluzione, civile e pacifica, al
piccolo inconveniente scoppiato tra i rispettivi figli.
Ecco che, scattato il pretesto, ha inizio la carneficina e, in breve,
le due compagini newyorkesi (Jodie Foster e Christoph Waltz, da una parte,
Kate Winslet e John C. Reilly, dall'altra) si affronteranno sui più
disparati argomenti, mettendo in luce le intime e fragili strutture
delle loro convivenze, rinfacciandosi l'un l'altro, come veri e propri
bambini, le rispettive responsabilità genitoriali e matrimoniali,
sottolineando ogni vocabolo con acidità uterina, ribaltando l'apparente
perbenismo insito nelle famiglie e deviandolo verso una più modesta
mediocrità suburbana. Capovolgimenti repentini e riappacificazioni
farciti da un'ironia fredda, quasi britannica, interpretazioni eccelse
ed una magistrale Kate Winslet, ormai antologica!
«Sono contenta che mio figlio abbia pestato il vostro, e vaffanculo ai
diritti umani», così esordisce "Doodle" Nancy Cowan (Kate Winslet), dopo
aver stravolto la glaciale armonia nel salotto dei Longstreet.
Esplode l'universo erudito, trascinato, dai suoi stessi esponenti, verso
una violenta e grottesca regressione allo stadio infantile. Un godurioso
ed irriverente capolavoro.
 

Voto: 9

Vik



martedì 4 ottobre 2011

La Piel Que Habito- Regia: Pedro Almodóvar

Interpreti: Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes, Blanca Suárez, Eduard Fernández,Fernando Cayo, José Luis Gomez, Jan Cornet, Bárbara Lennie, Isabel Blanco
 
Durata: h 2.00 Nazionalità:  Spagna, 2011 Genere: drammatico

"La pelle che abito" è il titolo, tanto enfatico quanto eloquente, dell'ultima fatica Almodóvariana; un dramma al vetriolo di difficile analisi.
Distanti dalle lussureggianti tinte del passato, ci si ritrova di fronte ad un prodotto scuro, un thriller monocromatico delineato da meticolosità chirurgica. Con tagli netti e poco invasivi, il Regista imbocca lo spettatore a piccole dosi, proprio come ad una cena Slow Food. Statici tasselli di un ostico puzzle letti al rovescio, ma pronti ad essere scoperti senza pietà al momento più opportuno.
I personaggi crescono lentamente, in un inesorabile climax ascendente, attraversando un ripido rettilineo di complessi dolori ed ossessioni morbose che non lasciano alcuna via di fuga. Il riscatto carnale è un miraggio.

Il film è suddivisibile in due blocchi effettivi, inestricabilmente legati tra loro come in un grosso e marcio apparato neurale.
Il primo, suggellato da ritmi serrati ed avvizziti, è un incipit in medias res. Un presente gia compiuto che, per ovvi motivi narrativi, non ha necessità di delineare solidamente nulla. Si piomba in un'attualità in preda alla sua naturale evoluzione, scaturita da eventi a noi del tutto estranei, che si concede, seppur in brevissima parte, a deviazioni puramente grottesche. Questa prima sezione, probabilmente, farà dubitare i più a tal punto da chiedersi "..ma Pedro c'è o ci fa?". In realtà, tutto assumerà una raffinata, e tanto sperata, piega concitata una volta approdati al secondo blocco.
Alla quasi atemporalità dell'azione precedente, si contrappone il succedersi di flashback, prima, e flashforward, dopo, espedienti prevedibili, ma d'obbligo, che districano qualsiasi nodo rigurgitando in un lancinante colpo di scena la cruda verità, frutto di una psicologia contorta e deforme.
L'autodistruzione del corpo a livello molecolare.

Ottime le interpretazioni degli attori. Su tutti spicca Elena Anaya, prigioniera più di se stessa che di Banderas, la quale, controllata dai fili invisibili dell'abile marionettista Almodóvar, viene indirizzata verso quella che appare come una corrosiva sindrome di Stoccolma, limbo venefico e tortuosa strada per il raggiungimento di un finale spiazzante e quanto mai geniale.
Non del tutto convincente, invece (e me ne rammarico), il doppiaggio italiano.

Voto: 7½

Vik